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One shot, one kill

di Simon Rebel
Gli occhi mi si aprono a fatica, ancora impregnati fradici dal sonno. Nel buio appare una macchia luminosa rossa. Galleggia, sospesa nel buio della camera da letto. La macchia va pian piano definendosi e mettendosi a fuoco ai miei occhi. Delinea dei numeri. Quattro, per la precisione. In mezzo a loro, riesco a scorgere persino due puntini lampeggianti. L’immagine definitiva scaraventa via in un istante, con la violenza di una bomba atomica e definitivamente, tutto l’intorpidimento in cui ancora dolcemente mi crogiolavo.
Cazzo. le 07:49. Come diamine può essere? Avevo puntato la sveglia alle 07:15! Devo essermi riassopito. Merda, devo correre. Correre come un disperato. Come se avessi la morte alle spalle. Devo fare oro di ogni minuto. Di ogni secondo. Merda Merda Merda.
La riunione coi cinesi è sacra. Se faccio tardi oggi, sarebbe come cannare con una bella figa la prima sera, seppure prima di quella sera hai scritto la storia del rimorchio. Ci sono partite in cui l’importante non è per niente partecipare: partite in cui non puoi fallire, punto. Non puoi fallire e basta. Partite in cui non c’è andata e ritorno. Partite in cui la regola è “Oneshot,onekill”. Senza se e senza ma. Ci sono partite prima della quali puoi aver compiuto tutte le imprese che vuoi,e potrai compiere tutte le prodezze sovrumane che esistono in seguito: ma se perdi quelle partite, se sbagli quel tiro, tutto il resto non sarà valso o varrà più nulla.
Tutto ciò che hai potuto compiere fino a quel momento si sgretolerà come castelli di sabbia al riflusso delle onde.
Oneshot, onekill.
Oggi mio figlio aveva anche la finale del torneo di calcio. Sognava di arrivare con la sua squadra a giocarla. E al contrario di quanto pensavo, forse speravo, quei marmocchi alla fine c’è l’hanno fatta davvero, dannazione. Me ne parla da un mese e passa. Pazienza, dovrò mancare. Troverò poi il modo di spiegarglielo, qualcosa mi inventerò. Ma ora si fottesse tutto, ora devo correre.
Mentre mi butto giù dal letto come un tarantolato, non mi interessa di non far rumore per non svegliare mia moglie che mi è accanto. Moglie che si sveglia, appunto.
“Amore… perché sei così di fretta?” mi chiede, con la voce ancora ampiamente impastata. “Devo correre, sono in ritardo bestiale. C’è la riunione coi cinesi per quel contratto importantissimo, ricordi? E’ questione di vita o di morte” le rispondo in maniera sbrigativa e concitata, mentre corro in bagno.
“Ma oggi la riunione?” mi chiede al mio rientro in camera dopo qualche minuto.“E’ il nostro anniversario Luca… Avevamo detto che saremmo andati a pranzo al ristorante dove ci siamo conosciuti tutti e tre, e poi alla partita di Marco…”
Dannazione. Era anche il maledettissimo anniversario, è vero. Non lo ricordavo questo ‘piccolo’ particolare. Dannazione di nuovo. “Elisa, non cominciare. Ci andremo domani. O dopodomani, non lo so. Ci sarà tempo. Ma ora molla. Oggi ho da fare cose importanti, che non si possono rimandare”, taglio corto io.
La guardo con la coda dell’occhio mentre ho già infilato calzini e pantaloni e continuo a vestirmi. Riesco a cogliere nella penombra della stanza come inizialmente abbassa lo sguardo e rimane in silenzio, e come poi sospira. Infine abbozza con voce sommessa: “Non sai quanto mi piacerebbe essere importante anch’io… anche solo per una volta. E sono certa che sarebbe felicissimo di esserlo anche Marco”. Dopo queste parole, lentamente, torna a poggiare la testa sul cuscino. Mi accorgo di una lacrima che le riga la guancia. Piange. Piange in silenzio.
“Elisa santo cielo! Il mio lavoro è ciò che ci fa vivere! Credi che questa villa, le macchine, la scuola privata di nostro figlio, i suoi vestiti di marca, e i tuoi vestiti di marca! Credi che tutta questa roba cada dal cielo? O cresca dall’orto del romanticismo? Che ce la diano in premio per i pranzetti degli anniversari o per le partitine di calcio dei bambini!? Negativo! Questa roba è venuta dalle mie corse ossesse di mattina, dalle giornate passate chiuso in un cazzo di ufficio a diventare scemo da quando era buio a quando lo era di nuovo, dal mio essere impeccabile a lavoro, dai pranzi e le cene fatte di panini o direttamente saltati, dalle notti con due o tre ore di sonno, dal dedicarmi anima e corpo a questo! Senza tutto questo, non avresti ne tutte le borse che hai, ne guideresti una Mercedes, ne affacciandoti da quella fottuta finestra vedresti quel maledetto e snob prato inglese che hai voluto ad ogni costo assieme a quella dannata piscina!”
Questo è ciò che le sbraito in risposta, senza nemmeno guardarla, ormai quasi completamente vestito. La cravatta. Non questa. Nemmeno quest’altra. Quella regimental. Dove cazzo è la cravatta.
“Farei volentieri a meno di qualche borsa, per un giorno in più con mio marito. Ma con quello che ho conosciuto dieci anni fa. Che girava con una Panda, che non mi riempiva gli armadi con roba di Gucci e Dior… ma che mi riempiva le giornate. Che non mi regalava oggetti, ma mi regalava se stesso”, risponde.
“E maledizione, e smettila! Per l’amor del cielo basta! Finiscila con questi piagnistei! Sembri un’adolescente! Non ho tempo per queste menate, lo riesci a capire!? Comunque io devo assolutamente andare ora”.
Prendo la giacca, la ventiquattro ore che grazie al cielo e alla mia metodicità ho preparato il giorno prima, e mi affretto ad uscire di casa. Quando sono di fronte la porta d’ingresso e faccio per aprirla una sagoma alla mia destra, sulla porta della camera di mio figlio, attira la mia attenzione: è proprio lui.
Marco mi guarda da dentro il suo pigiamino, con i piedi scalzi sul parquet. Ha lo sguardo assonnato, ma di chi ha già capito tutto. Non mi dice nulla: si incammina verso il letto dove sta la madre, scivola nella penombra della stanza, poi sotto le coperte, e le si sdraia accanto, abbracciandola. Lei lo bacia in testa e ricambia il suo abbraccio. Fanculo tutto. Devo muovermi.
Esco di casa, prendo la macchina, do un’altra occhiata all’orologio: posso farcela. Sono stato bravo. La strada è sgombra. Stranamente sgombra. Ma grazie a Dio è sgombra. Guido in maniera per niente rilassata per le vie della città, che sono ancora velate dalla luce tenue di un mattino fresco, bluastro e ancora acerbo, striato solo da qualche spruzzo di nube qua e la. Arrivo a quello che io chiamo “La trappola di cristallo”, il palazzone ove ha sede la società per la quale lavoro. Posteggio l’auto nel parcheggio privilegiato, quello destinato al direttore generale della società, al secolo “il boss”, e a noi dirigenti. Chiudo l’auto, esco dal cancello automatico e mi avvio all’ingresso a passo svelto.
Ce la faccio, ce la faccio, ce la faccio. Entro nel grande atrio a piano terra, reso circolare nonostante la pianta quadrata dell’edificio: il via vai di persone è ancora moderato, ma già presente, e l’enorme orologio posto sopra il banco della recezione segna le 08:15: Missione compiuta. Ho spaccato il minuto.
Quell’omone del boss è al banco della recezione. Lo vedo di spalle, in un impeccabile completo blu, intento a firmare alcuni fogli. Percepisce la mia presenza alle sue spalle. Si volta e mi saluta. “Buongiorno Borrelli. Puntuale come sempre. Il tempo di un caffè se vuole ce l’ha ancora, poi siamo operativi. Ovviamente è tutto pronto… inutile chiederglielo no?” mi chiede infine, con espressione fiduciosa.
“Ovviamente Signor Direttore. Entro stasera avremo le firme dei cinesi su quel contratto” gli rispondo, con una sfacciata sicurezza. “Perfetto Borrelli… perfetto. A tra poco allora”. Mi saluta con aria ampiamente compiaciuta. Il direttore generale a questo punto mi stringe la mano, poi fa un veloce cenno di saluto con la testa anche alla Gargani, la responsabile del personale addetto all’accoglienza del pubblico mentre le restituisce i fogli firmati. Subito dopo, a passo svelto, si dirige verso l’ascensore del quale ha l’uso esclusivo tramite il suo badge e che lo porterà al piano del suo ufficio. Mentre va via controlla nuovamente l’orario all’orologio da polso in oro che indossa, quasi fosse un tic. Io decido di prendere il caffè di cui parlava poco prima. Mentre lo sorseggio, improvvisamente, scoppia una violenta rissa. E a darsele di santa ragione sono i pensieri nella mia mente: con lo sguardo perso nel vuoto di chi è assorto da una parte ripasso alla velocità della luce l’illustrazione che dovrò fare ai cinesi tra poco, dall’altra rivisualizzo il viso delusi di mio figlio e di mia moglie. Vince facile e per knock-out il pugile all’angolo rosso: l’illustrazione ai cinesi. Un’occasione immane per la mia società, per la mia carriera, per il mio conto corrente, e per i miei guadagni economici futuri.
Getto la tazzina vuota, guardo di nuovo l’orologio, contagiato anch’io dal tic del boss: ho ancora due minuti. Il tempo per prendere anch’io l’ascensore, ma quello dei comuni mortali. Io non ho il badge del Direttore. Ancora no.
Durante la salita dell’ascensore, accompagnato dal fruscio ovattato del suo movimento, continua il furibondo turbinio di pensieri che mi trita la mente. L’ascensore rallenta. Un elegante tintinnio anticipa l’apertura delle porte. Esco e percorro il patio fino all’ufficio del Direttore: la porta blindata è già aperta, e lui ovviamente è già li.
“Venga Borrelli, venga. La delegazione cinese dovrebbe arrivare a momenti. Ne approfitti per riordinare le idee”, mi dice. Colgo la sua tensione. “Signor Direttore, dovrebbe saper bene che non sono il tipo che riordina le idee negli ultimi minuti” mi permetto di rispondere, col doppio intento di rassicurarlo ed apparire ancora più sicuro ai suoi occhi, mentre poggio la ventiquattro ore sulla scrivania, inserisco la combinazione per l’apertura e sblocco i ganci. “Stia sereno. Sarà una passeggiata”. “Si Borrelli, ha ragione… la sto tartassando. E lei non mi ha mai deluso. Ma sa bene cosa c’è in ballo questa volta. Ho scelto lei proprio perché la considero una garanzia assoluta. Non possiamo lasciar passare questo treno. Per nulla al mondo!” rimarca, stringendo il pugno destro con vigore. “Il treno non andrà via senza di noi e ancora una volta non rimarrà deluso dalla scelta, Signor Direttore. Si rilassi, e attenda di vedere le firme su quel contratto”, continuo a rassicurarlo. “Si, va bene… Cerco di rilassarmi. Anche perché farmi vedere troppo teso dai gialli potrebbe essere negativo. Potrebbero pensare chissà cosa ci sia sotto all’affare. A proposito… ma quando arrivano? Non hanno mai tardato un minuto nemmeno loro”, nota a quel punto il Direttore.
Non gli rispondo, rimanendo con le mani nelle tasche dei pantaloni del mio completo e limitandomi ad un espressione di circostanza e di dubbio con le sopracciglia. Subito dopo il boss alza il telefono che ha sulla scrivania e digita il numero interno della recezione. Il vivavoce emette uno squillo. Uno solo, prima che la chiamata riceva risposta e dall’altro capo inizi a giungere, recitata da una voce femminile e formale, la presentazione della società.
“Signorina Gargani, sono il Direttore” taglia corto il boss. “I clienti della Cina sono arrivati?” le chiede poi. “No Signor Direttore. Non sono ancora arrivati”. “E provi a chiamarli! Cosa aspetta!” sbotta il boss, scomponendo con una secca manata alcuni fogli che erano impilati sulla sua scrivania. “Appena fatto, Signor Direttore. Entrambi i referenti non sono raggiungibili. Subito dopo ho provato a contattare anche il nostro autista che li attendeva all’aeroporto, irraggiungibile anche lui. E’ irraggiungibile anche l’aeroporto stesso. Oltre questo non avevo idea di come poter rintracciare la delegazione. La stavo per chiamare in ufficio per informarla, mi ha preceduto. Mi dica pure in quale altro modo posso esserle utile, Signor Direttore”. “Maledizione! Va bene, va bene così Gargani, la ringrazio. Ha già fatto tutto ciò che poteva. Grazie ancora”. Sono le ultime parole del boss, prima che sbatta nervosamente la cornetta giù e salti in piedi. “Cosa cazzo sta succedendo!” inveisce, scuotendo le mani aperte per poi sbatterle sulla scrivania, rimanendoci poggiato, mentre con lo sguardo cerca una frase che possa tranquillizzarlo da parte mia. Il suo volto è paonazzo. “Signor Direttore, cerchi di non innervosirsi. Sarà accaduto qualche inconveniente al ripetitore telefonico della zona aeroportuale. Potrebbero aver trovato un ingorgo stradale, conosce il traffico di questa città nelle ore cruciali come questa. Credo che arriveranno a momenti. E ad ogni modo a questo punto sono loro ad aver ritardato, noi non abbiamo da temere brutte figure ora. Del resto abbiamo tutto il giorno, non si agiti… Non ce n’è ragione al momento…”.
Le mie parole sembrano riuscire a calmarlo almeno un po’. Sbuffa da sotto i suoi baffoni, e va ad affacciarsi all’ampia finestra posta sulla parete opposta all’ingresso, a metà sala. Lo seguo con lo sguardo, pronto a recepire altre disposizioni. La sua espressione, dal preciso momento in cui inizia a guardare fuori, passa velocemente dal nervosismo all’incupirsi. Aggrotta gli occhi, arriccia il naso e sistema lentamente i suoi occhiali. “Ma cosa diamine…” sono le parole che seguono, pronunciate lentamente ed a bassa voce, accompagnate da un gesto lento, quasi assente della sua mano destra, che mi fa cenno di raggiungerlo e guardare anch’io.
Mi porto quindi prontamente alla finestra, da dove si potevano chiaramente notare alcune colonne di fumo nero alzarsi da una zona immediatamente prossima all’aeroporto assieme ad alcuni bagliori inconfondibili di fiamme. Grosse fiamme, a giudicare dalla lontananza di quella zona, visibile da dove ci troviamo solo grazie all’altezza del palazzo da dove guardiamo.
“Accidenti… devono essersi verificati qualche tipo di incidente. Provo ad accendere la tv?”, gli propongo. Il Direttore senza distogliere lo sguardo da quell’ambiguo panorama mi fa cenno di si con la testa, in maniera appena percettibile. Accendo quindi lo schermo al plasma dell’ufficio. Le immagini trasmesse, stranamente disturbate, mostrano scene di ambulanze e personale di soccorso medico che forniscono frenetica assistenza a dei feriti, apparentemente gravi, molti dei quali sembrano addirittura privi di sensi.
… si susseguono confuse e le fonti non sono ancora certe. Il primo episodio pare essersi verificato alle prime luci di questa mattina, presso l’aeroporto locale. Voci non confermate parlano di aggressioni ad alcuni membri del personale della struttura e ad alcuni passeggeri da parte di altri viaggiatori discesi da un volo proveniente da Buenos Aires e diretto a Mosca, che ha dovuto compiere un atterraggio di emergenza nel nostro territorio. Subito dopo lo sbarco la situazione presso l’aeroporto stesso e le zone circostanti sarebbe immediatamente degenerata, con aggressioni e disordini sempre più numerosi e diffusi, fino a scivolare di mano alle autorità che avrebbero preferito evitare di utilizzare le armi per non mettere a rischio i civili ma che al contempo non sarebbero riuscite a fronteggiare la situazione pacificamente. Sembrerebbe che gli esagitati si siano dimostrati in breve tempo molto più numerosi di pochi ed isolati individui, che le aggressioni verificatesi siano avvenute anche in diverse e lontane zone dell’aeroporto nonché all’esterno dello stesso, come dicevo in un brevissimo lasso di tempo, elemento che non fa escludere un’azione preventivamente organizzata e coadiuvata da elementi già presenti in aeroporto, potenzialmente di natura terroristica. Non sono stati risparmiati dalle aggressioni neanche membri del personale di soccorso giunto ad assistere i primi feriti. Attualmente l’intera zona circostante l’aeroporto è fuori controllo e le comunicazioni interrotte. Le autorità stanno ora provvedendo…continua la lettura

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Written by i love zombie

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