Di Anna Calabrese
GINEVRA (nostro servizio particolare). Alla luce dei conflitti odierni, primo fra tutti quello in atto tra Israele e Hamas, è evidente quanto la protezione offerta dal diritto internazionale durante i conflitti armati sia di fatto fragile.
Si pensi a contesti ormai ben conosciuti in cui i gruppi armati non statali sono i protagonisti, spesso controllando territori e disponendo di arsenali e capacità all’avanguardia come le competenze nello spazio cibernetico, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale grazie alla scienza aperta.
Risulta allora cruciale comprendere se e come questi attori siano responsabili dei loro atti in contesti di conflitto armato e se siano legalmente vincolati ai principi vigenti secondo le Convenzioni di Ginevra.
Se da un lato gli attori non statali non possono prendere parte a Convenzioni né contribuire alla formazione del diritto umanitario consuetudinario, secondo la dottrina essi sarebbero vincolati ai principi cardine vigenti in contesti di NIAC (Non International Armed Conflicts, ovvero quei conflitti in cui sono coinvolti uno Stato Contraente e un gruppo armato capace di esercitare il controllo di un territorio e svolgere operazioni militari) in quanto l’art. 3 delle Convenzioni di Ginevra sancisce che “tutte le Parti del conflitto sarà a tenuta ad applicare le seguenti disposizioni”, elencando determinate garanzie considerate come protezione minima da assicurare per il rispetto della dignità umana e la limitazione di atrocità e sofferenze”.
Essi sembrerebbero, inoltre, vincolati dal fatto che svolgono una funzione governativa de facto, controllando territori e dirigendo operazioni militari ad ampia portata, oltre che dalla propria giurisdizione nazionale in quanto le norme di Diritto internazionale umanitario (DIU) sono incorporate nelle legislazioni nazionali che riconoscono le Convenzioni.
Sebbene, però, a livello teorico gli attori non statali debbano osservare il DIU, è evidente quanto garantire e assicurare la sua attuazione e rispetto da parte di entità che non sono soggetti secondo il diritto internazionale rimanga estremamente complesso.
Spesso le asimmetrie nell’interpretazione e percezione di determinate norme, che possono essere considerate come occidentalocentriche, sono inasprite dal fatto che gli Stati sono riluttanti nel negoziare con gli attori irregolari circa determinate clausole da rispettare, con la paura di aumentare la loro legittimità politica.
In questo spazio grigio si insinuano allora ambiziose iniziative che puntano a stimolare il dialogo con i gruppi armati non statali per assicurare il rispetto dei principi di Ginevra.
Una di esse è la famosa “Geneva Call”, che si impegna a rafforzare il rispetto delle norme e dei principi umanitari da parte dei gruppi armati e delle autorità di fatto, al fine di migliorare la protezione dei civili.
Un approccio di ricerca interessante e innovativo per promuovere il rispetto dei principi cardine del DIU risiede in un’analisi critica e comparata di esso con altri regimi giuridici che regolamentano i conflitti: ciò implica però riconsiderare l’universalità del diritto internazionale umanitario alla luce delle divergenze e complessità etnico-religiose e culturali che caratterizzano la realtà degli attori non statali e gruppi armati.
Risulta efficace allora considerare le convergenze e soprattutto le divergenze tra DIU e diritto islamico, anche alla luce dei protagonisti dei conflitti attuali.
Il Diritto islamico della guerra è noto come “siyar” ed è costituito dal Corano e dalla Sunnah come fonti primarie, a cui si aggiungono le “opinioni” o “raye” risultanti dal cosiddetto consenso accademico e analogia.
A differenza del DIU, il diritto islamico non distingue tra ius ad bellum (diritto alla guerra) e ius in bello (diritto in guerra, ovvero il diritto umanitario), in quanto le guerre dovrebbero essere combattute per autodifesa e “senza oltrepassare i limiti” poiché “Allah non ama coloro che li oltrepassano ” (Corano 2:190).
La convergenza chiave risulta nel principio di distinzione che obbliga le parti a non colpire civili o oggetti civili a meno che non partecipino direttamente alle ostilità (art.51.3 API).
Sia la Sunnah che le disposizioni del califfo Abu Bakr affermano di “non uccidere donne o bambini, né i vecchi e gli infermi; non tagliare alberi da frutto; non distruggere alcuna città; non tagliare le gengive di pecore o cammelli se non per mangiarli; non bruciare alberi da datteri; non rubare dal bottino e non siate codardi”.
Queste raccomandazioni vanno oltre il sopracitato principio di distinzione per abbracciarne altri quali la salvaguardia dell’ambiente come bene di importanza primaria e il divieto di saccheggio, ai quali è possibile aggiungere anche indicazioni circa il trattamento umano e non degradante dei prigionieri di guerra e l’obbligo di distintivo per gli eserciti indossando mantelli di lana, come si legge negli scritti.
Si osserva, dunque, che i due regimi presentano notevoli somiglianze.
Sebbene il DIU abbia portata sicuramente più ampia, sia più protettivo ma anche descrittivo e applicabile a realtà odierne, la legge islamica e le sue pratiche di riferimento risalgono al settimo secolo e le sue norme risultano estremamente progressiste per il tempo.
È inoltre da sottolineare quanto l’uso dell’Islam come movente di guerra abbia incoraggiato gli studiosi a interessarsi maggiormente al regime di guerra islamico, focalizzandosi però sul concetto di jihad e ius ad bellum più che ai principi applicabili in contesto di conflitto che invece convergono con gli approcci occidentali.
L’attuale conflitto in Medio Oriente, tuttavia, presenta violazioni del diritto internazionale umanitario e presumibilmente anche di principi di diritto islamico, dimostrando quanto dietro ogni congettura e logica vi sia un bilanciamento dei principi con la logica del “vantaggio militare”.
Ad ogni modo approcci pragmatici che focalizzano l’attenzione sulle convergenze tra diversi regimi e che mirano a comprendere come e in che misura gli attori non statali interpretano il DIU risultano efficaci per incoraggiare il rispetto di principi necessari a rendere ogni conflitto “più umano” e minimizzare sofferenze e atrocità, nel vero spirito delle Convenzioni di Ginevra.
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L’articolo Guerre: riconsiderare l’universalità del diritto internazionale umanitario alla luce delle divergenze e complessità etnico-religiose e delle culture proviene da Report Difesa.
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