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Albania: storia ed applicazione del “Kanun”, il Codice dell’onore di Lekё Dukagjini

Di Romina Kavaja

Tirana. Nei giorni scorsi, in una trasmissione della televisione italiana, si è tornato a parlare del “Kanun”. Parlare di esso, oggi, può sembrare assurdo ma a quanto pare la famosa “vendetta di sangue” del Paese delle Aquile è ancora viva, soprattutto nelle zone montane del Nord dell’Albania.

Valoer storico e giuridico del Kanun

Teoricamente il “Kanun” riguarderebbe solo il popolo albanese ma, a quanto pare i flussi migratori albanesi che hanno interessato l’Europa ed in particolare l’Italia, hanno visto anche uno sconfinamento di queste pratiche secolari.

La trasmissione faceva l’esempio di un ragazzo albanese, di nome Gjergji, ucciso dal cittadino italiano, nel 2015. La famiglia del ragazzo dichiara di volersi vendicare, seguendo proprio le leggi del Kanun.

Ma cos’è esattamente questo Kanun? E come funziona?

Il Codice “Kanun” di Lekё Dukagjini – il quale sistematizzò i precetti tradizionali in una raccolta che, secondo la tradizione, avrebbe trasformato i principi della vita sociale in una vera e propria legge civile – per vari aspetti determina ancora la cultura albanese.

E’ considerato uno delle maggiori raccolte di disposizioni di diritto consuetudinario albanese tramandato di generazione in generazione in forma orale. Fino al 1933, quando Shtjefen Gjeçov, frate francescano originario del Kosovo pubblicò la prima raccolta “Scutari” (città dell’Albania del Nord).

La raccolta prevedeva la trascrizione dei racconti, proverbi, testimonianze degli anziani contadini albanesi (l’intero corpo del Kanun), che si trovavano nella maggior parte dei territori abitati da albanesi.

Per Gjeçov, infatti, il “Kanun” era semplicemente l’insieme delle regole della comunità cristiana albanese, dettato secondo i dettami di Lekё Dukagjini, vissuto nel 1400.

Questi dettami cambiavano da feudo a feudo ma rimanevano costanti i valori fondamentali: la “Besa”, l’onore, l’ospitalità, il sangue, l’uguaglianza ed il legame sociale che da essi scaturiscono.

Quello che abbiamo e che comunemente viene chiamato il Codice di Lekё Dukagjini è, in realtà, una raccolta di norme  in cui si riconosce fortemente l’influenza del frate francescano del Kosovo.

Anche se, per alcuni studiosi, le sue origini risalgono all’epoca degli imperatori romani di origine illirica  quali Diocleziano, Costantino e Giustiziano, ed era conosciuto dal leggendario Re dello Stato serbo medievale, Stefano Duŝan.

Il Codice è diviso in 12 libri, 24 capi e 1.262 articoli, anche se tale suddivisione è fatta in modo coattico, in quanto al suo interno presenza contraddizioni.

Veniamo al punto più criticato in questi giorni: la vendetta di sangue (gjakmarrje). Il Kanun prevede la possibilità di vendicarsi sull’uccisore o sul membro maschio dell’uccisore.

Ma è proprio cosi?

All’inizio no, questo “uso” fu introdotto per facilitare la vendetta (il sangue segue il dito) a tal punto che, successivamente, Dukagjini la estese a tutti i maschi della famiglia del colpevole.

L’articolo 125 del “Kanun” recita: “Secondo il Codice antico delle Montagne albanesi, soltanto l’omicida cadeva nella vendetta del sangue, cioè solo quello che con il fucile o con qualunque altra arma uccideva una persona. La famiglia dell’ucciso non poteva inseguire, né uccidere alcun parente o nipote o cugino dell’omicida, ma solo quest’ultimo. Il Codice posteriore abbraccia nella legge della vendetta o del taglione, tutti i maschi della famiglia dell’omicida, anche se sono in fasce, i cugini ed i nipoti più prossimi, ancorché divisi, possono incorrere nella vendetta entro le prime 24 ore dall’avvenuta uccisione“.

Si ha così una contrapposizione tra due normative: quella antica, nella quale la vendetta riguardava solo l’assassino, colui che aveva premuto il grilletto e quella moderna che vede i famigliari e gli averi messi a repentaglio secondo un diritto riconosciuto alla famiglia della persona offesa.

Adempiere quindi alla vendetta è quasi un obbligo: pena perdita dell’onore.

Dal servizio televisivo si capisce come la famiglia del ragazzo ucciso ed in particolare il padre sia deciso a vendicare la morte del figlio per una questione di onore. In altre parole è meglio vendicarsi, morire o marcire in galera che essere disonorati.

Proprio perchè, il più delle volte, subire un oltraggio e non reagire oppure reagire ed essere sconfitti, significa la rovina sociale, in quanto, si perde l’onore.

Il libro VIII, capo XVII del “Kanun”, dedicato all’onore personale, prevede che il Codice delle Montagne albanesi non faccia distinzione tra uomo e uomo (un’anima vale quanto un’altra; davanti a Dio non c’è distinzione).

L’onore è patrimonio personale, né alcuno con vie giudiziarie può impedire il risarcimento dell’onore (l’onore sulla fronte c’è stato impresso dal sommo Iddio).

Il disonore non si vendica con compensi, ma con spargimento di sangue o con perdono generoso.
Di fronte alla legge il disonorato è considerato persona morta.

Ma come si disonora un uomo? In vari modi. Eccoli: dichiarandolo bugiardo in presenza di uomini seri radunati a convegno; sputandogli in faccia, minacciandolo di percuoterlo, spingendolo o percuotendolo; guastandogli la mediazione o la fedeltà promessa; oltraggiandogli la moglie o semplicemente allontanandogliela; prendendogli le armi di spalla o quelle di cinta; offendendogli l’ospitalità, oltraggiandogli l’ospite o l’operaio; violandogli (a scopo di furto) la casa, l’ovile, i depositi del formentone e dei latticini che ha nel cortile; non pagandogli i debiti o non restituendogli i prestiti; scoperchiandogli i vasi delle vivande mentre si trovano sul fuoco a cucinare; essendo ospite inzuppando il boccone prima di lui; biasimandogli la mensa in presenza dell’ospite, dopo che s’è mangiato.

Si può desumere, in caso di violazione (a scopo di furto) della casa, dell’ovile, dei depositi che ha nel cortile che vi è un rovescio della medaglia, in quanto anche il Kanun prevede la legittima difesa (come previsto dal Codice Penale italiano).

Quindi, se fosse vero, come emerso dalle indagini del Giudice per le indagini preliminari, secondo quanto riportato dal servizio in TV, che il giovane albanese fosse stato ucciso all’interno di una casa, intento a rubare, dal proprietario, allora significherebbe che la famiglia di Gjergji non avrebbe motivo per vendicarsi.

In realtà, molto spesso viene invocato il “Kanun” per omicidi che ben poco hanno a che fare con esso, difatti, nel tempo le sue norme sono state stravolte a seconda dei sistemi socio-politici che si sono succeduti.

Per rispondere alle lacune dello Stato relative all’esercizio delle sue funzioni pubbliche si è sviluppata nella società una visione distorta del “Kanun”.

Insomma, come nel caso riportato dalla trasmissione televisiva, non si può parlare di “Kanun”, ma di giustizia privata.

Proprio perchè si rischia di ricorrere ad esso per ogni conflitto interpersonale causato dalle più diverse motivazioni.

Arrivando alla “gjakmarrje”, che implica l’insorgere di una serie di cicli di vendette interminabili che mettono in pericolo la vita di tutti i maschi della famiglia di coloro il cui onore è stato offeso.

L’ignoranza, la non conoscenza del Codice delle Montagne, il desiderio di vendetta e di giustizia fai da te ha portato a non rispettare più il “Kanun”, nonostante si agisca in nome suo. Ed un esempio di questo è stata l’uccisione, nel 2012, di una ragazza di 17 anni e del nonno di 70.

Ecco, questo è il Kanun di oggi, quel Codice che non rispetta più quanto fu tramandato, in quanto uccidendo la ragazzina si viola una delle norme salde: “la donna è intoccabile”.

Il Codice prevede che se un uomo si fa accompagnare da una donna fuori dalle mura della casa, non gli si può sparare addosso, perchè è con una donna e alle donne non si spara.

Questo dimostra che non si tratta del “Kanun”, ma dello sconcertante emergere della giustizia fai da te, che lo Stato d’Albania ha condannato ripetutamente e al quale non riconosce assolutamente nessun potere giurisdizionale.

Ricordiamoci che al di sopra del “Kanun” si poggia la legge albanese o italiana che sia. Nonchè, punto importante che non va dimenticato, nel Codice vi è il “principio del perdono” (introdotto da Skanderbeg che, avrebbe voluto abolire la gjakmarrje ma scontrandosi contro la ferma opposizione degli alti capi clan propose l’introduzione del principio del perdono come alternativa). Ecco il perdono è ritenuto saggio quanto l’omicidio e la vendetta.

Esiste poi la “Besa”, termine intraducibile in altre lingue, perchè strettamente legato al contesto all’interno del quale è nato e si è diffuso. S tratta in generale di una parola irrevocabile che presuppone l’assumersi un impegno che dovrà essere portato a termine ad ogni costo.

Tra le sue varie interpretazioni può essere intesa come “tregua”, concessa all’assassino.

L’articolo 122 del libro X del “Kanun” prevede “quel periodo di libertà e sicurezza che la famiglia dell’ucciso accorda all’omicida e alla sua famiglia, obbligandosi di non inseguire a scopo di vendetta fino al giorno convenuto”. Poi “Concedere la tregua è un dovere e cosa degna di uomini forti” ma “se l’assassino, nonostante la tregua avuta, si rifiuta di prender parte alla cerimonia ed al convitto funebre, non è atto disonorevole se la famiglia dell’ucciso ritira la tregua”.

Se ne desume, che la tregua concessa all’omicida e la pretesa che esso prenda parte alla cerimonia funebre della sua vittima hanno l’evidente funzione di scongiurare questa degenerazione della gjakmarrje in una giustizia privata.

L’Albania, grazie al “Kanun”, è stata negli anni bui per l’Europa un rifugio per i cittadini ebrei. E’ stato l’unico Paese in cui gli ebrei non furono deportati ed uccisi, ma accolti e salvati.

Tanta umanità e coraggio è dovuto al “Kanun”, ed in particolare alla Besa, che in questo caso si riferisce alla fiducia che l’albanese ha nel suo prossimo, nonchè all’ospitalità e alla protezione di chi ha bisogno.

Il Kanun statuisce all’articolo 96 che “la casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite”. All’ospite si deve far onore offrendogli “pane, sale ed il cuore”.

Ognuno e sempre, così di giorno come di notte, deve aver pronto per l’ospite il pane, il sale, il buon cuore, il fuoco, un tronco di legno (per guanciale) e la paglia (per letto).

Un ospite stanco deve essere circondato con un’onorata accoglienza. All’ospite si lavano i piedi. Ad ogni ospite in generale si offre quello di cui la stessa famiglia suole ordinariamente nutrirsi.

Per un ospite d’onore occorre il caffè, l’acquavite e qualche vivanda in più.

Per un ospite molto caro occorre il tabacco, il caffè con zucchero, l’acquavite e, col pane, la carne. “All’ospite di cuore si cede la casa”.”

Se ne desume un dovere inderogabile, quale quello di difendere la vita umana di chiunque, anche a costo della propria incolumità.

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