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Che cosa si perde con le unioni civili?

di Antonio ROTELLI
Una settimana fa ho pubblicato sul sito lgbtnewsitalia alcune considerazioni sul nuovo disegno di legge sulle unioni civili. A queste ha replicato l’amico Marco Gattuso, che ritiene di aver rilevato delle inesattezze  giuridiche in quello che ho scritto. Con questo articolo propongo un approfondimento sul tema.
Il tempo che si impiega a discutere del Disegno di Legge sulle Unioni civili – pur costituendo un dovere da parte di chi lo avversa come me – è la prova inconfutabile della mancanza di linearità di tale intervento normativo. Si dirà che è un esito inevitabile di ogni riforma legislativa. Ma al di là della discutibilità di tale obiezione, ricordo a me stesso che tra due strade per la soluzione di un problema la logica impone di scegliere sempre la strada che presenta meno difficoltà di attuazione. Nel nostro caso, l’estensione del matrimonio alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Una tale riforma per via legislativa, infatti, consentirebbe automaticamente l’estensione di tutte le tutele, minuziosamente previste nel nostro sistema giuridico, a una coppia formata da persone dello stesso sesso.
L’opzione per il matrimonio egualitario risponde prima ancora che alla necessità sociale del rispetto per la dignità delle famiglie formate da persone dello stesso sesso, a una ragione strettamente giuridica: le unioni civili non sono oggettivamente in grado di coprire tutta l’area di tutela che il matrimonio concede alla famiglia. Il che da un lato è verificabile in un’ottica comparata, giacché in tutti i Paesi in cui ci sono stati interventi simili si è necessariamente ricorso all’intervento della magistratura per fronteggiare le irragionevoli discriminazioni che le coppie dello stesso sesso subivano rispetto a quelle coniugate di sesso diverso. Dall’altro lato, testimonia nei fatti che la separazione degli istituti (unione civile da un lato e matrimonio dall’altra) è funzionale a collocare le famiglie formate da persone dello stesso sesso giuridicamente (e quindi socialmente) in una posizione di inferiorità.
È questo quadro generale che nessuno – per primi coloro che recitano il mantra “meglio questo che il nulla” – dovrebbe dimenticare. E non serve ricorrere alla parabola del povero cui il ricco crapulone lasciava le briciole al posto di invitarlo a sedere tra i suoi commensali. Non serve perché qua non ci occupiamo del posto che i due avranno nel regno dei cieli, ma molto più prosaicamente del posto che i due (le famiglie formate da persone dello stesso sesso e le famiglie formate da persone di sesso diverso) avranno nella società una volta che per legge si sarà sancito che solo le famiglie di sesso diverso sono tali, mentre le secondo sono quell’ircocervo chiamato “formazioni sociali specifiche”, che basta saper leggere l’italiano per capire che non è certo invenzione della Corte costituzionale italiana.
Detto ciò, sono costretto a tornare su alcune mie considerazioni sul tema, sollecitato da Marco Gattuso, con il quale il dialogo è sempre proficuo. I suoi dubbi sollecitano altri dubbi; le sue incertezze determinano la riconsiderazione delle mie valutazioni. Eppure, nonostante alcune cose che dirò fra breve, deve essere subito chiaro che dissento nella maniera più recisa, per le ragioni che ho appena esposto, dal suo più volte dichiarato punto di vista: accontentiamoci di quello che il legislatore è disposto a concedere.
E parto proprio da questo atteggiamento supino nei confronti del legislatore, che ovviamente travalica l’oggetto di queste note. È un atteggiamento che sta facendo profondamente male al nostro Paese e non certo da oggi. Vorrei precisare che la mia ferma presa di posizione al riguardo non nasce da un’idiosincrasia nei confronti dell’attuale Presidente del Consiglio. Il suo atteggiamento di disprezzo per la nostra Costituzione è stato condiviso da molti che lo hanno preceduto. Sull’altare della convenienza politica i nostri Governi da anni fanno strame dei principi basilari della legalità costituzionale. Non serve che richiami la trasversale reazione alla sentenza della Corte di cassazione sul caso Englaro, sicché si paventò un inedito conflitto tra poteri dello Stato pur di non rendere eseguibile una sentenza definitiva. Né che ricordi la fine che sta facendo la legge 40/2004 in materia di fecondazione medicalmente assistita grazie all’intervento della Corte costituzionale. E si potrebbe continuare con gli interventi in materia di immigrazione, sulla giusta durata del processo e così via elencando. Ai nostri Parlamentari – a prescindere dal colore politico e dal posto occupato negli emicicli di Montecitorio e di Palazzo Madama – non è chiaro che il loro potere normativo trova un limite invalicabile nella Costituzione. Certo, si dirà che la Corte costituzionale serve proprio a questo: ricondurre alla legalità costituzionale interventi normativi che da essa prescindono. Ma il rimedio – fortunatamente previsto dal Costituente – non elimina affatto la condanna sul piano politico, che i cittadini dovrebbero far pesare nelle urne, nei confronti di un legislatore che si disinteressa completamente della Costituzione.
Allo strapotere del legislatore, completamente dimentico dei principi costituzionali, fa da contraltare purtroppo un atteggiamento diffuso tra i cittadini che molto ricorda quello di chi si affida al santo patrono per avere la grazia. Piuttosto che rivendicare in ogni sede il rispetto dei propri diritti fondamentali e inchiodare i politici all’esigenza di una loro attuazione, è tutto un ringraziare chi – sforzandosi di fare male il proprio dovere –  piega alle proprie convenienze politiche l’ideazione di un intervento normativo che la società italiana richiede per potersi considerare in linea con Paesi dalle tradizioni giuridiche affini alle nostre.
Non è il legislatore che si deve convincere ad aprire al matrimonio egualitario, siamo tutti noi che dovremmo ricordargli a ogni piè sospinto che il diritto al matrimonio è un diritto irretrattabile della persona e che non esistono persone di serie A, che possono accedervi e persone di serie B, che si devono accontentare delle unioni civili. Il legislatore peraltro deve capire oggi – non un giorno lontano – che negando platealmente il rispetto del principio di uguaglianza formale, non troverà nessuno a ringraziarlo perché le briciole delle unioni civili non solo non avranno soddisfatto la fame di giustizia di migliaia di cittadini, ma li condanneranno a una condizione di inferiorità sociale e infine li obbligherà ancora una volta a varcare le soglie dei tribunali per risolvere problemi della quotidianità che per distrazione o per inanità il legislatore non ha preso in considerazione.
Vengo ora al secondo rilievo mossomi da Marco Gattuso attinente al rapporto tra l’istituto del matrimonio e l’istituto delle unioni civili. Faccio riferimento al testo del A.S. 2081, XVII legislatura, presentato il 14 ottobre scorso. Qui è chiaro che il matrimonio impedisce la costituzione di un’unione civile (art. 2, 3° co. lett. a) e la sussistenza di un’unione civile di uno dei nubendi impedisce a questi di contrarre matrimonio (art. 9). Chiarito ciò, occorre fare qualche approfondimento di tale aspetto apparentemente formale e secondario. A dispetto di quello che si ripete, questi due articoli letti congiuntamente chiariscono che dal matrimonio e dall’unione civile discende un effetto giuridico del tutto analogo: la perdita dello stato libero. Sotto questo profilo è vero che le unioni civili sono un matrimonio di serie B. Al pari del matrimonio, infatti, coloro che costituiscono un unione civile non sono più libere di passare a una diversa relazione con una persona diversa senza innescare un passaggio “formale” di scioglimento del vincolo. Eppure, diversamente dal matrimonio, coloro che costituiscono un’unione civile non godono di tutte le tutele che da questo discendono. Il doppio impedimento dell’art. 2 e dell’art. 9 è un modo per far rientrare dalla finestra (vincolo giuridico forte tra le persone) quello che si era cacciato dalla porta (estensione in senso egualitario del matrimonio). Una disposizione irragionevole a fronte del fatto che, nel caso delle unioni civili, questa conseguenza giuridica viene “ripagata” con meno tutele e con l’aggravio di una “separazione” formalizzata e costosa.
Per riepilogare finora quello che si è detto: ci dobbiamo arrendere alla pervicace volontà del legislatore di non rispettare il principio di uguaglianza formale, ci dobbiamo accontentare di un istituto che ci vincola al pari del matrimonio quanto alla nostra libertà di stato e non ci dà le stesse tutele del matrimonio. Andiamo avanti con i rilievi di Marco Gattuso.
Il tema questa volta è la trasformazione del matrimonio in unione civile nel caso delle coppie originariamente di sesso diverso poi diventate dello stesso sesso a seguito di riattribuzione anagrafica del sesso di uno dei due coniugi, quando abbiano espresso la volontà di continuare a rimanere uniti (art. 7). A mio avviso la norma nella sua attuale formulazione non consente di salvaguardare pienamente la vita familiare della coppia unita civilmente, in quanto non si prevede che l’unione civile si trasformi automaticamente in matrimonio se a rettificare il sesso sia uno/a dei partner dell’unione civile. Marco Gattuso afferma che si tratta “sicuramente [di] una irragionevole differenza di trattamento (sotto tale profilo a mio avviso incostituzionale, ma vedremo) ma certo la vita familiare è salvaguardata” perché a suo avviso potranno sempre chiedere le pubblicazioni matrimoniali e convolare a giuste nozze. Ora, se si ammette che è un’irragionevole differenza di trattamento – soprattutto in fase di elaborazione della norma – questa va eliminata e non certo difesa pensando oggi al rimedio futuro di un pedestre intervento legislativo. Quindi analizziamo i problemi che essa pone per immaginare una sua riformulazione.
Prima di tutto, anche questa disposizione conferma quanto dicevo prima: questo intervento normativo separa nettamente il matrimonio dall’unione civile senza renderli paritariamente alternativi, ma sanzionando un diverso peso giuridico tra i due istituti. Da un lato, infatti, il matrimonio nella sua pienezza di tutela connessa all’eterosessualità delle parti va celebrato nel rispetto di tutte le forme previste per legge, perché è l’istituto di serie A per la tutela della famiglia. Dall’altro lato, l’unione civile – proprio perché dotata di un riconoscimento giuridico e sociale inferiore – sorge come effetto naturale di una norma appena si verifichino i presupposti di fatto da essa previsti (rettificazione degli atti dello stato civile, volontà delle parti di rimanere unite, scioglimento automatico del matrimonio) senza troppi clamori.
In secondo luogo, concedendo a Marco Gattuso che oggi si debba già immaginare un rimedio a una norma che vi è ragione di pensare sia incostituzionale, sarà il caso di chiedersi cosa succede se nel lasso temporale tra lo scioglimento dell’unione e la celebrazione del matrimonio tra le stesse parti, preceduta dalle pubblicazioni matrimoniali una delle due dovesse morire. In quelle ore, per quanto poche, le parti che magari erano unite da un’unione da decenni ridiventano estranei giuridicamente. Perché – sia pure per poche ore – il loro legame famigliare, sia pure di serie B, deve essere ridotto al nulla giuridico?
E ancora: se durante il lungo percorso di transizione, l’altro partner per una qualsiasi ragione (l’insorgere di una patologia mentale grave, un coma e così via elencando) perde la sua capacità di agire, come potrebbe sposare il suo (ormai ex) partner, una volta effettuata la rettificazione degli atti anagrafici? E’ rispettoso del diritto alla vita famigliare dei due uniti civilmente costringere la persona transessuale a rinunciare alla transizione per evitare lo scioglimento della sua unione civile dal momento che non può contrarre matrimonio?
In terzo luogo, se è vero quello che ho sostenuto più sopra, ossia che lo status libero si perde tanto con la celebrazione del matrimonio tanto con la costituzione di un’unione civile, è del tutto irragionevole che la rettificazione di sesso possa consentire nel secondo caso, pur in presenza della volontà delle persone di rimanere unite, la riacquisizione dello stato libero. Detto in altri termini, non si capisce quale utilità abbia sul piano giuridico obbligare le parti unite civilmente in questa peculiare fattispecie a celebrare un matrimonio per ritornare alla situazione di partenza, ossia non avere lo stato libero.
L’unica giustificazione razionale della norma è la sua funzione di rimarcare il fatto che l’unione civile è un minus rispetto al matrimonio e siccome solo il più può contenere il meno, è solo quest’ultimo che si può trasformare in un’unione civile e non viceversa.
Dunque: il legislatore intende sottrarsi al rispetto del principio di uguaglianza formale, chi contrarrà un’unione civile perderà la propria libertà di stato come nel matrimonio ma senza avere le stesse tutele e se c’era qualche dubbio, la previsione normativa in tema di atti anagrafici di una delle parti di un’unione civile dimostra testualmente che il matrimonio è quella vetta giuridica che il legislatore sta rendendo irraggiungibile per le coppie formate da persone dello stesso sesso, chiamate ad accontentarsi di un matrimonio di serie B.
E veniamo alla condizione dello straniero. Qui nemmeno se mi sforzo riesco a capire il rilievo di Marco Gattuso. Tra gli articoli del codice civile a cui rinvia l’art. 3, 3° co. vi è l’art. 116 c.c. primo comma, che regola il matrimonio dello straniero nella Repubblica e prevede che in questo caso debba “presentare all’ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che giusta le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio”. Con la norma proposta la stessa cosa deve avvenire per l’unione civile. Non c’è alcun dubbio che sia così, se l’italiano ha ancora un senso. L’art. 3, 3° co., si apre con la frase “all’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano (…)” e segue il richiamo a vari articoli del codice civile, selezionati attentamente affinché non contengano la parola famiglia. Almeno in due casi, in questi anni cittadini omosessuali di Cuba e della Cina hanno avuto serie difficoltà a contrarre matrimoni con cittadini italiani in Paesi, dove era possibile nonostante l’identità di sesso tra i nubendi, a causa di norme simili. La soluzione ancora una volta è “che problema c’è? Andranno da un giudice!”. No, la soluzione in fase di elaborazione di una norma è immaginare una regola che semplifichi la vita delle persone e che non gli crei possibilmente ulteriori problemi. Non si può fare sempre il giochino di scrivere norme di difficile attuazione e poi lamentare l’interventismo della magistratura. Il diritto serve a risolvere i problemi delle persone e non a creargliene di nuovi. Una norma dovrebbe servire a snellire la burocrazia non ad aumentarla.
Con l’unione civile, dunque, è violato il principio di uguaglianza formale, si perde la libertà di stato ma non si acquisiscono le tutele ampie del matrimonio, è necessario un upgrade formalizzato quando una delle due parti decide di rettificare i propri atti anagrafici, si è costretti ad andare in tribunale se per avventura si proviene da uno Stato che avversa la condizione dell’omosessualità e non intende in alcun modo certificare la libertà di stato della persona.
Ma andiamo avanti. All’art. 3, 2° co., come una voce dal sen fuggita, troviamo l’espressione “vita familiare”, mentre nella relazione accompagnatoria, e in tutto il resto del provvedimento ci si guarda bene dal precisare che qui di famiglie stiamo parlando, al pari di quelle formate da persone di sesso diverso. In effetti, ho parlato di “compilatore disattento”, ma forse è più opportuno parlare di “compilatore furbo”. Si dice che l’unione è una formazione sociale rilevante ai sensi dell’art. 2 Cost. Ma non si dice espressamente che formazione sociale sia. In un’interpretazione sistematica della legge è evidente che di famiglia si tratti e l’art. 3, 2° co. consentirà di abbandonare un’interpretazione sistematica per la più pacifica interpretazione letterale. Ma chi è che farà questo passaggio logico? L’interprete, sia esso il giudice o il teorico del diritto. Ne prendo atto, ma per onestà intellettuale si deve prendere atto altresì che il legislatore per ragioni che con il diritto non hanno niente a che fare non ha il coraggio di chiamare famiglie le coppie formate da persone dello stesso sesso, né nella definizione di unione civile né nel resto del provvedimento. La forma è sostanza, anche e forse soprattutto in questo caso. Una sostanza che non impedirà tanto la soluzione di problemi minimi, purché si abbia la fortuna di avere cultura, soldi, tempo e un giudice colto e illuminato a cui ricorrere, bensì una sostanza che rallenterà il processo di emersione sociale delle coppie formate da persone dello stesso sesso come famiglie meritevoli della stessa dignità sociale e giuridica di quelle formate da persone di sesso diverso. In questa discrasia di valore tra le due realtà si potrà infilare il futuro legislatore reazionario, che paradossalmente si servirà proprio di questa legge per ricacciare nell’ombra ciò che anni di lotte per i diritti hanno faticosamente portato alla luce del sole. Senza escludere un’azione referendaria che punti ad eliminare l’espressione “vita familiare” l’unica volta che essa ricorre nel testo.
Nessun rispetto per il principio di uguaglianza formale, nessuna libertà di stato e tutele inferiori al matrimonio, necessità di un nuovo matrimonio in caso di rettificazione anagrafica del sesso, nessuna considerazione per le persone omosessuali che provengano da Paesi insensibili alla loro tutela, nessuna concessione esplicita alla definizione delle coppie formate da persone dello stesso sesso come famiglia. Uno pensa che tanto basti, ma i rilievi di Marco Gattuso continuano ed è gioco forza continuare a rispondere, perché sia chiaro che stiamo parlando di questioni concrete e di difetti oggettivi del disegno di legge e non di mie posizione radicali e preconcette.
Ecco quindi che arriviamo alla questione dei minorenni, cui è preclusa l’unione civile. Il ragionamento che ho fatto a me pare abbastanza lineare. L’art. 84 c.c. prevede che il minore che abbia 16 anni si possa sposare con l’autorizzazione del tribunale “accertata la sua maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni addotte”. È forse vero che la norma – come dice Marco Gattuso – sia pensata solo per il matrimonio “riparatore”, ma in sé contiene un principio su cui da anni si basa una riconsiderazione della capacità di agire del minore con riguardo all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Una norma che, quindi, va letta con lo sguardo al futuro e non con la testa prudenzialmente rivolta al passato. Peraltro, l’art. 84 c.c. non fa alcun cenno allo stato di gravidanza della donna infradiciottenne che voglia contrarre matrimonio. Dunque, restringere la portata normativa del testo solo perché “si è sempre fatto così” non appare in alcun modo giustificato. E ciò anche alla luce delle norme – anche sovranazionali – che al minore riconoscono un sempre maggiore grado di capacità con riferimento all’esercizio dei propri diritti fondamentali. Ma se è così, risulta del tutto irragionevole che l’infradiciottenne omosessuale sia trattato in un modo diverso da quello eterosessuale. Annotiamo, dunque, quest’altra “differenza” irragionevole tra quelle che tengono ben separati gli omosessuali dagli eterosessuali, concedendo solo a costoro protezione giuridica.
E andiamo avanti con il cognome. Lamentavo il fatto che nel nuovo testo si è eliminata la possibilità di conservare il cognome del partner dopo la sua morte. E qui Marco Gattuso mi tira le orecchie affermando: «È vero che non è consentito di conservare il “cognome comune” dopo la morte del partner, ma forse andrebbe rammentato, anche, che le coppie eterosessuali non hanno oggi la possibilità di scegliere un “cognome comune”!!! Qui è tutta la disciplina del cognome che è differente». Dunque, siccome questa volta sono gli eterosessuali che non hanno la possibilità di avvantaggiarsi di un’opzione resa possibile alle coppie dello stesso sesso, queste devono rassegnarsi a perdere il vantaggio acquisito, non tanto perché è una cosa buona in sé, ma perché anche le coppie etero quel vantaggio non ce l’hanno. L’obiezione si commenta da sola. Ma una cosa la devo riconoscere. Marco mi ha fatto cambiare idea sul punto. Il fatto che scompaia la possibilità di conservare il cognome del partner dopo la sua morte è un bene piuttosto che un male. Giusto il principio per cui ciò che non è vietato è permesso in ambito privatistico, è evidente che nel silenzio del legislatore nessuno potrà “d’ufficio” impedire all’unito civilmente (lo so, è cacofonico, ma sono gli effetti perversi della violazione del principio di uguaglianza!) superstite di conservare il cognome acquisito al momento della costituzione dell’unione civile, e ciò perché nel frattempo la sua identità personale si sarà socialmente cristallizzata alla luce del cognome prescelto. Del resto, è la stessa logica che possiamo trarre dall’art. 143 bis c.c. e non si vede a fronte dell’identità di ratio e di presupposto della fattispecie la ragione per cui l’effetto previsto dall’art. 143 bis non debba analogicamente trovare applicazione nel caso dell’unione civile. Ho detto analogicamente?! Peccato che l’analogia sarà difficile da utilizzare giacché matrimonio e unione civile sono tenute ben distinte dal legislatore che ci tiene a farci sapere che si tratta di una “formazione sociale specifica” talmente distinta dal matrimonio che le norme contenute nel Codice civile e che si riferiscono alla relazione coniugale possono considerarsi riferite anche ai membri di un’unione civile solo se siano richiamate espressamente dalla legge. E il 143 bis non è richiamato. Sento già, l’obiezione: e che problema c’è? Basta fare una causa, sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale e il problema è risolto!
Ci siamo quasi, abbiate pazienza ci sono ancora due obiezioni. Guardate l’aspetto positivo però. Queste obiezioni sono poche rispetto a quelle che un’analisi molto più rigorosa e approfondita consentirebbe. E succederà con il tempo, grazie al lavoro dei teorici del diritto e dei tanti avvocati che busseranno alle porte dei tribunali, finché un giorno – come fa il legislatore nella relazione accompagnatoria di questo disegno di legge – si sveglierà e si accorgerà che la società è andata avanti e cercherà nuovamente di raggiungerla frenandola con altri ceppi utili solo alla stabilità dell’assetto di potere raggiunto.
La stepchild adoption. Secondo Marco Gattuso va tutto bene, in fondo anche all’estero per le coppie omogenitoriali non si sono risolti in un colpo solo tutti i problemi soltanto perché si è introdotto il matrimonio. Ancora una volta la giustificazione è: all’estero qualcuno ha fatto peggio di noi, quindi possiamo stare tranquilli. Si potrebbero dire molte cose su questo uso strumentale della comparazione, ma ciò che mi preme ora è sottolineare una volta in più che se si sta immaginando una norma la si dovrebbe pensare nel modo più funzionale alla soluzione dei bisogni dei cittadini e, in questo caso, dei bambini. Il meccanismo che il legislatore vuole introdurre consiste in una manipolazione dell’adozione in casi particolari. In questo tipo di adozione, l’unica relazione giuridica che nasce è tra il minore adottato e l’adottante. In questo senso l’adozione in casi particolari si distingue da quella legittimante (o adozione piena) che il disegno di legge in considerazione esclude espressamente per le coppie formate da persone dello stesso sesso. Ora, se obiettivo della norma è creare un contesto familiare e giuridico saldo che dia piena protezione al minore, perché proporre l’estensione dell’adozione in casi particolari, con i suoi effetti limitati che escludono il sorgere di un legame giuridico con gli ascendenti e i collaterali dell’adottante? Questa peculiarità della normativa italiana dovrebbe suggerire una maggiore prudenza nel comparare la norma che si immagina di introdurre nel nostro Paese con quelle vigenti in altri. Lo stesso meccanismo giuridico calato in ordinamenti con caratteristiche differenti può avere effetti completamente diversi. Piuttosto, della peculiarità italiana ci si dovrebbe far carico e riconsiderare gli effetti dell’adozione in casi particolari (se proprio non vi si vuole rinunciare a favore di quella legittimante) affinché si possa tener conto delle particolari esigenze di una coppia omogenitoriale. Ma sappiamo perfettamente che ciò non sta avvenendo e che tutto si consuma dietro mediazioni sulle mediazioni con un occhio attento al numero dei parlamentari necessari ad approvare le norme che interessano il Governo.
In conclusione, dovrebbero essere chiare le ragioni per le quali aborro l’approvazione delle unioni civili perché costituiscono un arretramento giuridico. Il testo sancisce differenze e rimarca distinzioni. Sul piano della dignità sociale delle persone omosessuali e delle nostre famiglie crea asimmetrie costituzionalmente intollerabili. Tutto ciò per quanto mi riguarda non è accettabile. Mi spiace che la mia posizione, motivata e non imprecisa, possa creare disagio a chi sostiene le unioni civili anche se lamenta mal di pancia.
Questa è l’ultima volta che torno su questo argomento. E mi scuso fin d’ora con chi continuando a sollecitarmi con la richiesta di ulteriori chiarimenti non riceverà alcuna risposta. L’autoreferenzialità del legislatore – specie di questo legislatore – mi fa percepire come un inutile spreco di tempo quello di insistere nel sollecitare una maggiore prudenza e riflessione.
Sento una lacerazione profonda e il peso di una grande solitudine perché come persona omosessuale non ho più nessuno che rappresenti la mia aspirazione di cittadino a non essere trattato come un minus habens. Ho sempre detto pubblicamente che il Parlamento avrebbe fatto le sue scelte, ma che io avrei continuato a portare avanti la battaglia per la pari dignità sociale e l’uguaglianza. Ecco, facciano le loro scelte, ma non pretendano alcun grazie da parte mia. Quando sarà chiaro in che condizione di inferiorità ci stanno mettendo davanti a tutta la società italiana, sarà il momento di rimboccarsi nuovamente le maniche e ricominciare a combattere per l’uguaglianza e la pari dignità.
Fonte: retelenford.it

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