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USA e rinnovo della missione UNIFIL: La rituale pressione sulle Nazioni Unite per l’interesse (elettorale) nazionale in Medio Oriente

Di Vincenzo D’Anna 

Beirut. Nonostante l’attenzione e il supporto internazionale al Libano a causa del tragico evento del 4 agosto in Beirut, nei giorni scorsi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha iniziato a discutere il consueto appuntamento del rinnovo della missione UNIFIL in Libano.

Scenario post apocalittico dopo l’esplosione a Beirut

A breve, quindi, ci sara’ la scadenza del mandato annuale, varato con la UNSCR 2485 del 29 agosto 2019, che confermato il mandato dei “Caschi blu” in Libano, dal 2006 – con la UNSCR 1701 – impegnati nell’incessante controllo della Blue-Line, la linea di confine con Israele.

Da martedì scorso, i media americani, arabi e israeliani, in accordo con la propria narrativa d’interesse, hanno riportato indiscrezioni secondo le quali l’ambasciatrice statunitense Kelly Craft avrebbe sottolineato la necessità di un nuovo mandato.

L’azione coercitiva si basa, come di consuetudine, sul diritto di veto in quanto appartenente ai cinque Stati permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Il numero dei “caschi blu” impiegati dal 1978 nella missione UNIFIL (Source UNIFIL)

Secondo quanto appreso, il Dipartimento di Stato americano pone all’attenzione del Consiglio, attraverso la sua Ambasciatrice, la necessità di ridurre la presenza massima di truppe da 15 mila a 11 mila (attualmente circa 10.100) e modificare il periodo di proroga del mandato da un anno a sei mesi per consentire ulteriori modifiche al mutare della situazione sul campo.

La contestazione dei funzionari statunitensi e, ovviamente, israeliani è forte e decisa, evidenziando i tunnel transfrontalieri di Hezbollah in Israele, tagli di recinzione di confine e la mancata libertà di movimento dei “caschi blu” in alcune zone.

L’attuale ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Kelly Craft

Gli Stati Uniti provvedono da soli a più del 20% dell’intero budget delle Nazioni Unite e, allo stesso tempo, risultano tra i paesi ritardatari nei pagamenti, situazione spesso verificatasi in esercizio di pressione sull’Assemblea Generale o il Segretariato a favore della propria agenda.

Nel caso UNIFIL, nel 2006 la votazione della UNSCR 1701 trovò l’unanimità del Consiglio di Sicurezza e il supporto esplicito di George W. Bush che colse l’occasione di inserire Hezbollah nella famosa blacklist delle organizzazioni terroristiche.

Contrariamente al predecessore repubblicano, già dalla turbolenta campagna elettorale del 2016, Trump ha più volte apertamente dichiarato l’intenzione di ritirare le truppe dai teatri NATO e dalle basi in Europa (vedasi il recente caso della Germania) e ridimensionare le spese che gli Stati Uniti sostengono a favore di paesi terzi, delle Organizzazioni Internazionali e regionali, mettendo in discussione lo stesso motivo di esistenza della NATO.

Come promesso durante la campagna elettorale che l’ha portato alla presidenza, Trump ha sempre sostenuto la necessità di tagliare il budget dedicato all’UN, con particolare riferimento a UNIFIL, spinto dall’alleato israeliano e dal costante attrito con l’Iran, sperando in un irrigidimento di postura da parte delle truppe impiegate e maggiore garanzia di sicurezza per il nord d’Israele.

Attraverso l’ambasciatrice presso le Nazioni Unite, all’epoca Nikki Haley (dal gennaio 2017 al dicembre 2018), furono svolte numerose visite presso le missioni di pace per verificare l’efficienza del Department of Peace Keeping Operations (DPKO) e di conseguenza dimostrare “la banalità” di alcune spese, il cui 20% ricade sulle spalle degli Stati Uniti.

L’ex ambasciatrice Usa, alle Nazioni Unite, Nikky Haley

L’evento che palesò gli interessi del governo del Tycoon di far perno sui tagli all’UN per tenere saldo l’elettorato statunitense e le relazioni israeliane, fu la visita della Haley sulla Blue Line nel giugno del 2017 in vista della successiva votazione per il rinnovo.

In tale contesto il Comandante di UNIFIL, il Maggior Generale Michael Beary, sarebbe stato inaspettatamente messo a confronto durante un’esercitazione a nord di Israele con il Vice Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Generale Aviv Kochavi, nel quale furono contestati gli accessi delle unità di manovra dei peacekeepers in alcuni villaggi e l’approccio troppo remissivo verso le autorità locali, a tutela dell’operato di Hezbollah.

Ne conseguì un rapporto  contestatorio in sede UN che avrebbe ripreso in occasione approvazione del budget e/o rinnovo di autorizzazione dell’intera missione.

L’Ambasciatrice Nikki Haley durante la sua visita in Israele nel giugno 2017 (Photo credit: THE JERUSALEM POST)

La contestazione da parte della Haley puntava pubblicamente all’inadeguatezza del sistema di sicurezza offerto da UNIFIL, la necessità di una postura più rigida durante le attività di pattugliamento e l’eccessivo carattere “umanitario” della missione che pendeva più sul supporto della popolazione che al controllo della proliferazione di armi nel Sud del Libano.

La missione fu regolarmente rinnovata il 30 agosto 2017 con la UNSCR 2373, sede nella quale fu rimarcata l’opportunità di UNIFIL di operare in base a quanto sancito dal Capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, per cui la concessione delle attività operative è subordinata solo all’Autorità del Governo del Libano, in collaborazione con il DPKO e il Consiglio di Sicurezza.

Una storia che l’ambasciatrice statunitense Kelly Craft vuole probabilmente ripetere, a sostegno di una campagna elettorale per le prossime presidenziali che vedrà la politica interna protagonista a causa del Covid-19 e del caso Floyd.

Dall’altra parte la comunità internazionale – la Francia che avrebbe già preparato una bozza per la prossima risoluzione di rinnovo – si è dimostrata poco disposta a cambiare lo status quo di una missione di successo, che vede dal 2006 impiegare oltre 1000 unità delle Forze Armate italiane a supporto di un paese già da tempo collassato e a garanzia di un delicato equilibrio con il vicino Israele.

Il contingente internazionale di UNIFIL, che ha assicurato la stabilità per 14 anni nel Libano del Sud e in prima linea dopo il tragico evento del 4 agosto scorso, pagherebbe ancora una volta le scelte della manovra diplomatica del Dipartimento di Stato Americano, particolarmente interessato ad incassare prima dell’autunno gli obiettivi della politica estera prefissati per il Medio Oriente, tra questi, la mediazione con successo degli accordi di pace – in chiave anti-iraniana – tra Emirati e Israele recentemente annunciata.

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